In altre parole, la Corte di Cassazione, con la sua sentenza del 6 novembre 2014, n. 23369, ha dichiarato che la reintegrazione nel posto di lavoro di un dipendente licenziato, può avvenire solamente nel caso in cui si riesca ad accertare l’insussistenza del fatto posto come fondamento al licenziamento. Di conseguenza, pertanto, alla base del reintegro all’interno della struttura del datore di lavoro non può esserci alcuna valutazione sul profilo della proporzionalità di tale sanzione rispetto alla gravità del comportamento che viene addebitato al dipendente.
In altri termini ancora, i giudici non possono valutare la proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità del fatto, limitandosi solo a verificare se il fatto contestato dall’azienda sussiste (e in tal caso il licenziamento rimane legittimo) o meno (e in questo secondo caso scatterebbe appunto il diritto al reintegro).
Alla luce di quanto sopra, ricordiamo che il reintegro in servizio del lavoratore che è stato illegittimamente licenziato è limitato alla sola ipotesi in cui il giudice accerti l’insussistenza del fatto contestato. Di contro, il riconoscimento di un indennizzo risarcitorio tra 12 e 24 mensilità continua ad applicarsi in tutte le altre ipotesi in cui emerge che non ricorrono gli estremi della giusta causa o del giustificato motivo soggettivo richiamati nella lettera di licenziamento.
In conclusione, solamente nell’ipotesi in cui il licenziamento disciplinare sia avvenuto per giusta causa o giustificato motivo soggettivo, e il giudice riesca ad evidenziare che il motivo alla base del licenziamento non sussiste, è possibile usufruire del diritto al reintegro. Tale evidenza non potrà essere pertanto influenzata da valutazioni discrezionali in relazione alla proporzionalità (o meno) della sanzione sui fatti contestati.
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