Ricci il sindacalista venuto dalle miniere

Renato Ricci “de Riccio” nasce, l’8 marzo 1932, da Celestino (detto “Cillo”) e Lucia Santinelli, nel vocabolo rurale “La Badia” di Costacciaro, e muore, a Gubbio, il 9 novembre 2014. Alla Badia, già, nel X secolo, Abbazia di Sant’Andrea e Castello Feudale dell’Isola dei Figli di Manfredo, la più antica località abitata di Costacciaro, vivevano, in piena “era fascista”, sotto l’egida dell’ultimo signore rurale Vittorio Fantozzi, distribuiti su appena tre famiglie coloniche, ben cinquantotto servi della gleba: i cosiddetti “Badiòli”. 

Ben poco era, infatti, cambiato, in quasi 1.000 anni di storia: i Signori erano sempre Signori ed i “vilani”, sempre, etternamente, “vilani”. La società, difatti, era chiusa e la mobilità, all’interno di essa, praticamente assente. 

Sin da bambino, così, Renato aiuta nei campi il padre “Cillo” e, contemporaneamente, percorre, a piedi, sei chilometri al giorno, per frequentare le elementari a Costacciaro, dove, con la maestra Emma Ronconi, mostra di eccellere nella matematica e dimostra, sin da subito, la sua grande generosità, passando “il copione”, a chi non ce la fa a capire e ad eseguire gli esercizi ed i problemi. 

Renato è, dunque, uno dei ben cinquantotto contadini, i cosiddetti “Badiòli”, che vivono in cima ad un colle, dalla vista periscopica a 360°, il quale colle, come detto, ospitò, nel Medioevo, un castello ed un’abbazia. 

Nonostante le privazioni cui è sottoposto, ma, forse, si potrebbe dire, anche, e soprattutto, grazie alle privazioni, Renato cresce bene, forte nella mente, nello spirito e nel corpo e, soprattutto con un’incrollabile volontà di migliorarsi, di raggiungere traguardi e, una volta tagliatili, di aiutare la sua gente a riscattarsi da un’umiliante condizione di sottomissione sociale, economica e psicologica. 

Non per niente, sceglie di praticare lo sport della fatica e dei sudati traguardi: il ciclismo, sulla scia delle due ruote e dell’entusiasmo, suscitato in lui, dalle gesta eroiche del “Campionissimo” Coppi. Veloce, agile e resistentissimo in bicicletta, Renato stesso viene immediatamente ribattezzato “Coppi”, per la sua non troppo vaga somiglianza col grande Fausto. La prima foratura, lo costringe, tuttavia, per poter comperare un nuovo “palmer”, cioè un tubolare, a portare, con la bicicletta da passeggio, mezzo quintale di grano al mugnaio Odocaro Grelli di Villa Scirca. Molinaro e carbonaro: mestieri, in bianco e nero, d’una società agricola, silvana e pastorale che non c’è più! 

La Badia è un posto magnifico, ma esposto ai quattro venti, venti che squassano le costruzioni dei contadini e ne raggelano la malvestita pelle e la sottostante carne, specie coi loro rabbiosi “strusci” di tramontana durante l’inverno, che, oltre al freddo che portano, disseccano il pozzo medioevale dell’antica corte del castello feudale, unica riserva idrica del luogo, costringendo la mamma di Renato, Lucia, anche nell’imperversare della bufera, ad andare a “careggiare” l’acqua con l’orcio in testa, poggiato, in precario equilibrio, sopra una piccola corona di straccio, detta “corójja”, cioè, per l’appunto, proprio ‘coroncina’, in Latino. 

Il padre di Renato, ad un certo punto, non facendocela più a mandare avanti la famiglia con il proprio solo, pur duro ed inesausto, lavoro dei campi è, per questo, costretto ad esplorare, suo malgrado, le profondità telluriche dell’arcaica terra sarda di Carbonia. “Cillo”, fino ad allora, non aveva mai visto il carbone di roccia, ma soltanto quello di legna, che i carbonari del Monte Cucco, e delle macchie eugubine e costacciarole, di qua e di là del Chiascio, producevano, con una sorta di strana alchimia, tra respiro ed asfissia, nelle piccole e grandi “piazze” che punteggiavano, e fittamente, i boschi della collina e della montagna, tra Chiascio e Cucco. 

Renato, frattanto, sostituendosi al genitore, forzatamente assente, aiuta i familiari, come meglio non si sarebbe potuto, alzandosi “prima de giorno”, cioè alle tre del mattino, per guidare, già bambino, una “vetta de bovi”, vale a dire una pariglia di grandi bovini maschi adulti, ad arare i campi.

Nel 1951, all’età d’appena diciannove anni, dopo un’accurata visita medica, cui lo sottopongono a Milano, Renato emigra in Belgio, a Liegi, attorno alla cui capitale del Benelux, vi erano, allora, ben cinquantaquattro miniere di carbon fossile. 

Nonostante sia minorenne, viene considerato abile al lavoro ed immediatamente “arruolato”, anche perché, giovane, esile e smilzo com’è, può entrare, ed a meraviglia, anche nei cunicoli più stretti. È minorenne Renato e, nonostante il fatto che andrà a svolgere tutti i più pesanti lavori destinati alle persone nella maggiore età (allora ventuno anni), egli verrà sempre sfruttato ed ingiustamente pagato come un minorenne. 

Gli fanno vedere dove alloggerà, gli danno i vestiti, che, non essendoci armadi, egli può unicamente appendere per il tramite di catene issabili fin quasi al soffitto del capannone. Gli fanno, inoltre, firmare un foglio, perché hanno persino paura che, scappandosene in Italia, egli possa portare via con sé quei rozzi vestimenti. Nella camerata dove dorme, ed in cui convivono persone di ben cinque nazionalità diverse, Renato ritrova molti compaesani costacciaroli e, questo, allevia, almeno momentaneamente, la già pungente nostalgia di casa. 

Il primo scoglio da superare, tuttavia, è la lingua. I capi del cantiere della società mineraria in cui lavora (ed in cui convivono minatori di ben diciannove nazionalità diverse), infatti, sono praticamente tutti belgi, non parlano che un francese “vallon” duro e rozzo e, con questo, impartiscono comandi, rapidi e perentori, cui occorre ubbidire all’istante, pena severe punizioni e, con il passar del tempo, anche il licenziamento ed il forzato rimpatrio. 

Renato è fatto, successivamente, salire su di uno spettrale ascensore di ferro arrugginito e, fra sinistri cigolii metallici, viene calato sino alla spaventosa profondità di circa 750 metri nel ventre nero della terra carbognosa del Belgio. Successivamente, il giovane s’inabisserà negli strati rocciosi, fino all’incredibile quota negativa di meno 1050 metri. Uscito dall’ascensore, la cui calata è accompagnata da una gelida cascata d’acqua che lo investe in pieno, perché egli non sa ancora che, nello scendere all’inferno, bisogna tenersi strettamente al centro e non ai lati di quello che, in realtà, è soltanto un rozzo montacarichi, il ragazzo ha l’orribile sorpresa di vedere, in faccia, il vero, il nero, lavoro: dedali di cunicoli alti sui trenta centimetri ed in cui occorre strisciare in un turbinio indistintamente scuro di polvere. 

All’apice dei passaggi sotterranei, cui si accede dall’alto e che si scavano verso il basso, un uomo solo, lui stesso a cercare di strappare al sottosuolo quanto più può del prezioso minerale, con la punta impunita del piccone, o con quella, singhiozzante, del martello pneumatico. Punta, impunita come la sua volontà, martello pneumatico, singhiozzante come la sua propria anima! 

Il carbone viene, inizialmente, portato via con carrelli trainati da possenti cavalli da tiro del Belgio, mentre, poi, saranno piccole locomotive a svolgere quest’essenziale servizio di trasporto. Più si scava, però, e più il terreno, invece, di calare, continua a crescere inesorabile. Uscendo nero affumicato di polvere impastata a sudore, e con il contorno occhi unicamente bianco, Renato sembra proprio uno spettro venuto da quel nero inferno senza fondo. 

Dopo questa prima, devastante esperienza, egli pensa subito che non resisterà molto a quel supplizio e che se ne tornerà, ben presto, a casa sua, per lavorare di nuovo i campi, nell’aria limpida e cristallina della sua amata Umbria. Saranno, invece, quasi venticinque gli anni che Renato resisterà tra il vortice della polvere di “mina” detta, in un francese riadattato, per assonanza ed analogia concettuale, la “posièra”, giacché ovunque essa si posa. Un quarto di secolo di martirio, consacrato ad aiutare la sua famiglia, lavorando sempre, anche il sabato e, spesso, perfino la domenica.

Renato, come ogni minatore “de taille”, arriverà a bere fino a 7/8 litri d’acqua al giorno, nell’intento di placare la gran sete generata dal calore (che va dai 37 ai 40 gradi centigradi), dal sudore e dalla polvere e reintegrare, così, la grande quantità di liquidi perduti durante l’attività estrattiva. 

Più d’una volta rischierà anche di morire per l’esplosivo grisù o per la più subdola anidride carbonica che fa spegnere la lampada, quella lampada a benzina cui Renato deve la vita e che conserverà per sempre, e gelosamente, nella sua bella e luminosa casa di Villa Scirca, tra il Cucco ed il Chiascio. 

Fuori della miniera, nella cosiddetta società civile, la città di Ans, periferia nordoccidentale di Liegi, nel cui territorio comunale s’erano insediati ben 2400 italiani, su un totale di 19000 abitanti complessivi, le cose non vanno molto meglio per Renato, visto che lui e tutti gli altri minatori stranieri, accusati d’essere andati a rubare il lavoro ai belgi, vengono visti con diffidenza, se non proprio con aperta ostilità, e sovrano disprezzo, e subiscono, fortemente, il pregiudizio razzista che grava su tutti gli italiani, definiti spregiativamente, “mange maccaroni”, cioè ‘mangia spaghetti’. 

Per comprendere come gli emigranti fossero, a quel tempo, considerati, da tutti, alla stregua di mucche da mungere, si pensi soltanto al fatto che lo Stato italiano riceveva, da quello belga, ben trenta chilogrammi di carbone per ogni minatore d’Italia impegnato nell’attività estrattiva in quel Paese. 

Renato, tuttavia, contro tutto e tutti, continua ad essere speranzoso e la sua viva intelligenza, unita all’inesausta voglia di migliorarsi, lo portano, ben presto, all’avanzamento nella propria condizione lavorativa. Renato va, per ben quattro anni consecutivi, alla scuola serale, conseguendovi il diploma di meccanico. 

Compie, poi, il grande salto, entrando nei sindacati belgi, dove si distingue subito, per attivismo e brillantezza di idee, tanto e così bene da ricevere persino talune significative onorificenze, come la medaglia d’oro di prima classe, conferitagli, dal Re Baldovino, per la sua attività lavorativa, ma, particolarmente, per l’impegno profuso in favore della comunità italiana che, come si è sopra visto, era, allora, largamente rappresentata nel Comune di Ans. Renato, infatti, ricopriva l’importante incarico di presidente della commissione consultiva degli immigrati ed a lui era, più specificamente, affidato il compito di raccogliere e riferire i problemi della collettività degli immigrati, portandoli alla conoscenza dell’amministrazione comunale e del console italiano.

Quando, poi, se ne torna in Italia, vi svolge una febbrile attività in favore delle lotte sindacali iniziate in Belgio, ma i vertici dei sindacati italiani lo fermano, poiché sostengono che egli non può svolgere azioni sindacali in patria, se non, proprio, dall’interno degli stessi sindacati d’Italia. Renato decide, allora, d’iscriversi alla Cgil, conquistando, in essa, incarichi di rilievo e venendo elogiato ed insignito di numerosi riconoscimenti. 

Nei ventitré anni durante i quali Renato ha fatto l’emigrante in Belgio sono morte, in media, tra una e due persone al giorno per incidenti in miniera. Terribile è stato quello in cui l’incendio del gas grisù ha provocato ben sette morti in un sol giorno! E poi, e poi vi è stata, nel 1956, anche l’ecatombe di Marcinelle, durante l’incendio di uno dei cui pozzi carboniferi perirono 261 minatori, fra i quali ben 138 italiani!

Euro Puletti
Memore e Riconoscente
Sigillo, Venerdì 20 Marzo 2015 
http://www.montecucco.pg.it/Immagini_comuni/Cart_notizie_da_tutto_flaminia/Renato_Ricci_Il_sindacalista_venuto_dalle_miniere.htm

Pubblicato da mobertos

La nostra società è dominata da gente folle che persegue scopi malati. Penso che veniamo gestiti da fanatici con obiettivi fanatici, ed è probabile e che sarò io ad essere considerato pazzo per quello che ho deciso di postate qui sul blog "Esci dal Cerchio". E' questa la cosa folle! La frase è di John Lennon che ho adattato. A lui devo il merito di una certa influenza durante la mia gioventù. Da giovane avevo tanta energia e il mondo degli adulti non mi piaceva; entravo sempre in conflitto con chi voleva impormi qualcosa. Perché loro sapevano! Fin da piccolo, avevo capito invece che per imparare dovevo vivere quella cosa in prima persona. Potevano dirmi quello che volevano ma se avevo deciso di farla, la facevo, a tutti i costi. Pensavo che dovevo sperimentare sulla mia pelle le nuove esperienza che mi scoprivo giorno dopo giorno. Come si può capire, apprendere, sbagliare, senza vivere l'esperienza in prima persona? Che forse un uomo non deve mai sbagliare? Da qui la mia innata capacità ad affrontare ogni esperienza anche pericolosa, senza paura, anche al di sopra delle mie reali capacità anche pagando in prima persona. Il rischio mi ha sempre affascinato.