UNO, DIECI, CENTO di Antonella Proietti

Arianna sussultava ogni sera al suono del campanello. Era così da anni. Lui rientrava sempre verso le otto, suonava al citofono e quel trillo assumeva le sembianze del sibilo di un proiettile. A volte la colpiva, altre la schivava. 
La paura si era insinuata dentro le sue vene, le scorreva dentro, era scesa in profondità ed aveva intriso completamente il suo essere. Anche quando il suo bisogno di tranquillità cedeva il passo al  tormento, quel sentimento latente continuava a strisciare nel suo subconscio come un infido rettile, poi all’improvviso, riemergeva come l’acqua di una zampillante fontana. 
Come aveva fatto a scavare ed infilarsi giù in fondo, in quel remoto angolo del suo animo? 
Era giunto così in profondità da non riuscire più a risalire per andarsene altrove. Arianna l’aveva nutrito per troppo tempo e, ormai, le sue viscere erano diventate aride, ma non abbastanza da non alimentare più quella mostruosa bestia che è la paura. Ella continuava a sperare che prima o poi se ne sarebbe liberata.
Un bel contributo l’aveva ricevuto anche da sua madre e suo padre, con quei ceffoni “educativi”,  che ad ogni capriccio o ribellione, le venivano mollati senza alcun rimorso. 
E la sua maestra? Per richiamarla all’ordine le tirava le trecce in modo stizzoso, facendola piombare sempre in un mare di vergogna.
Arianna finì per accettare tutto questo come parte di una comune usanza educativa.
In fin dei conti quel bruciore passava in un secondo. Ben presto si abituò a prendere schiaffi e soprattutto a non reagire. 
Fu così, che alla prima sberla che le tirò il marito, porse l’altra guancia. E subito si sentì  in colpa, anche per  colpe che non aveva. 
Non comprese, assolutamente, che così, stava costruendo una pericolosa trappola. Senza la sua indignazione a quel comportamento incivile, aveva autorizzato la violenza. Il mostro della vergogna l’assalì vigliaccamente, e lei, povera vittima, restò paralizzata con l’incapacità di condividere la sua debolezza con gli altri. Si rifugiò in se stessa, allontanandosi dal mondo.
Ma un giorno, sempre più triste,  scoprì attraverso uno, dieci, cento libri, l’esistenza di donne diverse. Le conobbe attraverso migliaia di pagine lette voracemente, donne che non provavano alcun senso di colpa nel vivere la propria vita. Donne indipendenti, libere e capaci. Così scoprì che, lei stessa, era nata libera. Ora poteva spargere i suoi segreti al vento perché altre donne li raccogliessero. Conobbe per la prima volta la comprensione, la condivisione e soprattutto la solidarietà.
Finalmente divenne l’artefice della sua stessa liberazione. 

Pubblicato da mobertos

La nostra società è dominata da gente folle che persegue scopi malati. Penso che veniamo gestiti da fanatici con obiettivi fanatici, ed è probabile e che sarò io ad essere considerato pazzo per quello che ho deciso di postate qui sul blog "Esci dal Cerchio". E' questa la cosa folle! La frase è di John Lennon che ho adattato. A lui devo il merito di una certa influenza durante la mia gioventù. Da giovane avevo tanta energia e il mondo degli adulti non mi piaceva; entravo sempre in conflitto con chi voleva impormi qualcosa. Perché loro sapevano! Fin da piccolo, avevo capito invece che per imparare dovevo vivere quella cosa in prima persona. Potevano dirmi quello che volevano ma se avevo deciso di farla, la facevo, a tutti i costi. Pensavo che dovevo sperimentare sulla mia pelle le nuove esperienza che mi scoprivo giorno dopo giorno. Come si può capire, apprendere, sbagliare, senza vivere l'esperienza in prima persona? Che forse un uomo non deve mai sbagliare? Da qui la mia innata capacità ad affrontare ogni esperienza anche pericolosa, senza paura, anche al di sopra delle mie reali capacità anche pagando in prima persona. Il rischio mi ha sempre affascinato.